TESTIMONIANZE

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RECENSIONI

Vittorio Sgarbi
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VITTORIO SGARBI

Guai, per Anna Maria Artegiani, mancata farmacista perugina convertitasi alla pratica integrale della pittura intorno ai tardi anni Ottanta, se non si potesse dipingere lo spirito, intendendo per esso soprattutto quello di genere religioso, e in un senso trasversale, senza drastiche distinzioni fra un confessione e un’altra, come se a questo mondo tutti quanti, malgrado le diversità delle forme, avessimo un modo sostanzialmente comune di avvertire l’esistenza di un’entità suprema. Ma l’arte, per fortuna dell’Artegiani, ha avuto, fra le sue maggiori peculiarità storiche, anche quella di rappresentare l’irrappresentabile. i residui archeologici ci dicono che già dagli albori della civiltà, la rappresentazione del divino, a scopo prevalentemente apotropaico, era una delle preoccupazioni maggiori dell’uomo. Fondamentale, nell’arte greco-romana, è stata l’opera di umanizzazione del divino, corrispondente di fatto alla divinizzazione dell’umano (il corpo veniva rappresentato nel rispetto di un canone ideale di proporzioni), funzionale a una visione immanente dell’universo in cui natura e spirito trovavano perfetta corrispondenza, nel segno della soddisfazione dei bisogni essenziali. Poi è arrivato il Cristianesimo, in un primo momento, per avversione al paganesimo, incline a sposare l’aniconismo della tradizione ebraica di cui era figlio, in seguito adottato anche dall’islamismo. Cambiare totalmente rotta, rappresentando qualunque aspetto delle manifestazioni della spiritualità divina, tanto da fare dell’arte uno strumento essenziale nella comprensione di dogmi e altre verità teologiche altrimenti di difficile assimilazione presso la massa dei fedeli, è stata la mossa vincente del Cristianesimo, favorendone non poco il primato che ha esercitato nella cultura occidentale. Ma anche uscendo dall’Occidente, l’iconismo divino ha svolto un ruolo imprescindibile nel Buddismo, nell’induismo, nelle religioni delle civiltà precolombiane, solo per ricordarne alcune, sempre cercando di conciliare l’ideale spirituale e quello della forma, la bellezza celeste e quella terrena. Di questi presupposti, l’Artegiani è ben cosciente, quando afferma di voler fare un’arte “sensibile alla sacralità della vita e al mistero celato nella creatura umana”. Ogni proposta estetica che si proponga simili obbiettivi non potrà che assumere una valenza di mediazione tra il fisico e il metafisico, l’infinitamente indistinto della spiritualità assoluta e il distinguibile della spiritualità quotidiana. in altre parole, l’arte si propone, esattamente come successe con la svolta dell’iconismo, di fornire exempla attraverso cui l’incommensurabile possa risultarci commestibile, adattatoa parametri più consoni ai nostri ordinari costumi civili. tanto più riuscirà in questo intento, dice l’Artegiani, tanto più l’opera d’arte esaurirà il suo compito attraverso lo scavalcamento della sua pura fisicità, preludendo al vero godimento di chi la guarda, quello interiore. tutto bene, in teoria. nella pratica, i problemi da affrontare non mancano. Uno, per esempio, è quello che l’arte, fra teorie di angeli, frati, rabbini, monaci ortodossi, imam, bonzi zen e dervisci sufi che nel vivace, incantato repertorio figurativo dell’Artegiani, si succedono quasi senza soluzione di continuità, come appartenenti a un’unica, grande famiglia, possa concentrarsi troppo sull’esteriorità della spiritualità religiosa, per esempio su quella delle sue usanze più particolari, specie per quanto concerne le culture non occidentali, sconfinando in tal modo nell’esotismo. Che non è affatto un peccato, visto il sistematico ricorso che ne ha fatto l’arte occidentale, non solo figurativa (penso a tanta musica anche contemporanea, infarcitasi di Siddharta e gilgamesh), ma forse si rischierebbe di correggere il tiro rispetto all’obbiettivo primario che ci si era proposto. Altra questione è quella che pose in crisi l’iconismo bizantino, il più spirituale che mai abbia riguardato il bacino del Mediterraneo, quando ci si accorse che il culto dei fedeli si stava trasferendo dalla religione all’arte, vista come sua forma di oggettivazione. L’arte religiosa, insomma, è in grado di diventare la religione di sé stessa, come capita regolarmente nei nostri giorni, tendenzialmente atei, eppure pronti a venerare le pale di tiziano o gli affreschi sacri di Michelangelo. Quando vedo certi ritratti frontali dell’Artegiani, probabilmente le sue opere stilisticamente più compiute, rigorosamente paratattiche nella perfezione di ogni aspetto del volto, estremizzando in senso idealizzante il canone classico, mi chiedo, appunto, se la vera religione dell’autrice non sia l’arte, e la bellezza mondana, magari vestita di sacro, il vero scopo della contemplazione. Ma in tal caso, non ravviserei alcuna reale contraddizione, il bello può benissimo rinviare solo a sé stesso. Altrimenti, dovremmo considerare contraddittoria tutta la migliore arte religiosa del passato. Vittorio Sgarbi