TESTIMONIANZE
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Franco Venanti
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Luciano Cancelloni
Salvatore Russo
VITTORIO SGARBI
Guai, per Anna Maria Artegiani, mancata
farmacista perugina convertitasi alla pratica
integrale della pittura intorno ai tardi anni
Ottanta, se non si potesse dipingere lo
spirito, intendendo per esso soprattutto
quello di genere religioso, e in un senso
trasversale, senza drastiche distinzioni fra
un confessione e un’altra, come se a
questo mondo tutti quanti, malgrado le
diversità delle forme, avessimo un modo
sostanzialmente comune di avvertire l’esistenza
di un’entità suprema.
Ma l’arte, per fortuna dell’Artegiani, ha
avuto, fra le sue maggiori peculiarità storiche,
anche quella di rappresentare l’irrappresentabile.
i residui archeologici ci
dicono che già dagli albori della civiltà, la
rappresentazione del divino, a scopo prevalentemente
apotropaico, era una delle
preoccupazioni maggiori dell’uomo.
Fondamentale, nell’arte greco-romana, è
stata l’opera di umanizzazione del divino,
corrispondente di fatto alla divinizzazione
dell’umano (il corpo veniva rappresentato
nel rispetto di un canone ideale di proporzioni),
funzionale a una visione immanente
dell’universo in cui natura e spirito
trovavano perfetta corrispondenza, nel
segno della soddisfazione dei bisogni essenziali.
Poi è arrivato il Cristianesimo, in
un primo momento, per avversione al paganesimo,
incline a sposare l’aniconismo
della tradizione ebraica di cui era figlio, in
seguito adottato anche dall’islamismo.
Cambiare totalmente rotta, rappresentando
qualunque aspetto delle manifestazioni
della spiritualità divina, tanto da fare dell’arte
uno strumento essenziale nella comprensione
di dogmi e altre verità teologiche altrimenti
di difficile assimilazione presso la
massa dei fedeli, è stata la mossa vincente
del Cristianesimo, favorendone non poco
il primato che ha esercitato nella cultura
occidentale. Ma anche uscendo dall’Occidente,
l’iconismo divino ha svolto un
ruolo imprescindibile nel Buddismo, nell’induismo,
nelle religioni delle civiltà precolombiane,
solo per ricordarne alcune,
sempre cercando di conciliare l’ideale spirituale
e quello della forma, la bellezza celeste
e quella terrena.
Di questi presupposti, l’Artegiani è ben
cosciente, quando afferma di voler fare
un’arte “sensibile alla sacralità della vita e
al mistero celato nella creatura umana”.
Ogni proposta estetica che si proponga
simili obbiettivi non potrà che assumere
una valenza di mediazione tra il fisico e il
metafisico, l’infinitamente indistinto della
spiritualità assoluta e il distinguibile della
spiritualità quotidiana. in altre parole, l’arte
si propone, esattamente come successe
con la svolta dell’iconismo, di fornire exempla
attraverso cui l’incommensurabile
possa risultarci commestibile, adattatoa
parametri più consoni ai nostri ordinari
costumi civili. tanto più riuscirà in questo
intento, dice l’Artegiani, tanto più l’opera
d’arte esaurirà il suo compito attraverso
lo scavalcamento della sua pura fisicità,
preludendo al vero godimento di chi la
guarda, quello interiore.
tutto bene, in teoria. nella pratica, i
problemi da affrontare non mancano. Uno,
per esempio, è quello che l’arte, fra teorie
di angeli, frati, rabbini, monaci ortodossi,
imam, bonzi zen e dervisci sufi che nel vivace,
incantato repertorio figurativo dell’Artegiani,
si succedono quasi senza soluzione
di continuità, come appartenenti
a un’unica, grande famiglia, possa concentrarsi
troppo sull’esteriorità della spiritualità
religiosa, per esempio su quella
delle sue usanze più particolari, specie
per quanto concerne le culture non occidentali,
sconfinando in tal modo nell’esotismo.
Che non è affatto un peccato,
visto il sistematico ricorso che ne ha fatto
l’arte occidentale, non solo figurativa
(penso a tanta musica anche contemporanea,
infarcitasi di Siddharta e gilgamesh),
ma forse si rischierebbe di correggere il
tiro rispetto all’obbiettivo primario che ci
si era proposto. Altra questione è quella
che pose in crisi l’iconismo bizantino, il
più spirituale che mai abbia riguardato il
bacino del Mediterraneo, quando ci si
accorse che il culto dei fedeli si stava trasferendo
dalla religione all’arte, vista come
sua forma di oggettivazione. L’arte religiosa,
insomma, è in grado di diventare la religione
di sé stessa, come capita regolarmente
nei nostri giorni, tendenzialmente atei, eppure
pronti a venerare le pale di tiziano o
gli affreschi sacri di Michelangelo.
Quando vedo certi ritratti frontali dell’Artegiani,
probabilmente le sue opere stilisticamente
più compiute, rigorosamente paratattiche
nella perfezione di ogni aspetto
del volto, estremizzando in senso idealizzante
il canone classico, mi chiedo, appunto,
se la vera religione dell’autrice non sia
l’arte, e la bellezza mondana, magari vestita
di sacro, il vero scopo della contemplazione.
Ma in tal caso, non ravviserei alcuna reale
contraddizione, il bello può benissimo
rinviare solo a sé stesso. Altrimenti, dovremmo
considerare contraddittoria tutta
la migliore arte religiosa del passato.
Vittorio Sgarbi