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ANTONIO CARLO PONTI

Il viaggio dipinto dal silenzio

In esergo appaiono due pensieri, sul Tempo, sul Silenzio e sulla Solitudine, che mi sembrano essere nel cuore della pittura di Anna Maria Artegiani, artista ispirata, sapiente, sincera nella sua costante, fervida, ardua ricerca espressiva. Non credo sia frequente – specie oggigiorno – imbattersi in artisti che dell’esoterico (restituendo a questo termine, del quale si è tanto abusato, il vero e autentico significato di interiore), della spiritualità, della fede e della religiosità (laica) hanno fatto il fulcro tematico pervasivo (esclusivo) del loro cimentarsi, del loro misurarsi con l’arte figurale.

Al più si registrano i cosiddetti ipermanieristi (o anacronisti) che amano affrontare, nel pieno statuto dell’arte aniconica o virtuale, o i miti dell’antichità classica (à la manière del tardo De Chirico o di taluni surrealisti come Ernst…) oppure, quasi sempre su commissione, la cattolica arte sacra, o semplicemente devozionale. Il mondo e la pittura di Anna Maria Artegiani, di contro, sfidano la maniera, la gonfia retorica della citazione reniana o rubensiana, si fanno, sottilmente ma imperiosamente, come incistati nell’aura della fede e dei climi spirituali, derivati da passione alta, da curiosità vorace, da esegesi profonda.

Quel che il pensiero della giovane pittrice “ricama” sulla tela – in lunghe sedute di fronte al cavalletto e alla spaventevole superficie bianca – è frutto maturo di una visione del mondo tutta sua, ovvero di un animus da collezionista del vero, del trascendente. Realizzando - in parte sfatando – con i suoi nitidi, precisi, lenticolari racconti figurativi ( in taluni momenti, rari, al limite dell’ingenuo) l’aforisma di Ludwig wittgenstein: “Ciò che è carino non è bello”. Nei dipinti dell’artista non vi è nulla di lezioso (e anche se ci fosse?). Qui, in esordio, si è davanti ad un diario “sovrumano” dove non c’è posto per l’iperbole, per l’artificio, per la ridondanza. Tutto qui è vissuto, sofferto, tormentato, conquistato ai limiti della anoressia creativa. Prodotto di vocazione sincera, di studi e di letture appropriati, di viaggi consapevoli.

"Il silenzio è la mia parola", sembra voler dire con Bloy la pittrice. O meglio, il silenzio dipinto. Pittrice che centellina, che soppesa col saggiatore (sarà la laurea in farmacia) le sue tele, che si direbbe con metodo omeopatico – ossia a piccole dosi – costruisce le stazioni del viaggio celeste da lei iniziato (iniziatico?) attraverso i riti (e i miti) delle grandi tradizioni spirituali del globo – tuttora presenti, esistenti e con milioni di credenti, di fedeli. Viaggio insopprimibile, irredimibile nel tempo vivendi. Viaggio che è anche tesa quadreria di episodi, sure, preghiere, raccoglimenti eremitici, dentro il vero silenzio, perché l’assenza “di rumore non è silenzio. È soltanto assenza di rumore” e “il silenzio è la grande rivelazione”.

È così che il mirabile e ardito percorso della pittrice perugina, umbra, attraverso il sacro delle grandi tradizioni spirituali del mondo approda – come una nave che ha solcato molti mari perigliosi – all’isola felice dell’immateriale. Immergendosi subito – appena toccata la battigia – nella foresta di simboli e di liturgie che sorreggono il tempio (i templi, i luoghi sacri) della Tradizione, del cammino dove ascetismo, preghiera muta, divinazione, estasi si fondono. Nel crogiolo dell’assolutezza, dello stordimento. "Perché dunque parlare. L’anfora risuona soltanto quand’è vuota. Quando è ricolma, è invece silenziosa.

Volendo definire, con una sola parola, per dir così con una “parola autentica (echtes Wort)” la pittura, l’arte di Anna Maria Artegiani, userei la parola (l’aggettivo) sapienziale.

Di questa cifra la sua pittura nobilmente anacronisticamente si carica, si appulcra, immemore di modelli, indifferente – divinamente – alle mode, eppure, se vogliamo, non così distante – in essenza – dallo “spirituale nell’arte” di Vasilij Kandinskij (inventore nel 1910 dell’arte astratta).

Ma in questo secolo ignorante e grossolano (e così gonfio al limite della saturazione di informazioni, enciclopedie multimediali, ed, mostre a iosa, opportunità scolastiche perfino con costosi tutor ad personam, turismo, elettronica ecc.) l’arte – che non sia Caravaggio, Velàzquez o Van Gogh non è Arte (ma ci van stretti pure Morandi, Moore, Burri e Giacometti). Allora, che si fa, si va – ubbidendo all’unisono all’intimazione di Amleto – tutti in convento? Intanto, nei recessi, nelle fortezze quasi inaccessibili dello spirito ci conduce quasi prendendoci per mano – la ricerca (insieme pittorica e ascetica) di questa artista. La gnosi, dunque (intesa non come conoscenza razionale, ma come conoscenza del cuore, di tutto l’essere, come esperienza del divino), la conoscenza perfetta e salvifica (come recita un buon vocabolario) è dunque all’apogeo della sua investigazione superiore, dapprima insopprimibile attenzione all’universo senza materia, alla mappa delle credenze intorno al trascendentale, quindi materializzazione, “traslazione corporea”dell’invisibile nel visibile sulla/dentro la tela vergine di un quadro in divenire. Toccando le essenze del rifiuto di una civiltà meccanizzata che “ha imposto la presenza d’una costante condizione di non silenzio, di non pausa, a “tutti i livelli e in ogni circostanza” del vivere contemporaneo. Dunque la riacquisizione di quello stato di grazia che è l’intervallo meditativo capace di riconciliare con il mondo circostante la nostra diuturna fuga dalla contemplazione (il tempo è denaro), riconoscendo allo spazio (tempo) di una fruizione autonoma il blasone della piena comunicabilità. Si è insomma di fronte alla perdita di intervallo (e alla baudelairiana perdita d’aureola) che “uccide” sia in campo etico sia in campo estetico.

La pittrice Anna Maria Artegiani reintroduce nella sua arte la sonorità del silenzio, l’intervallo appunto. Il sovrano momento d’ozio zen, il raccoglimento anacoretico, interiore, spezzato soltanto dalla preghiera orale dei monaci nel coro, o dalla candida danza-vortice dei Dervisci, o dai battiti d’aria nei movimenti ”psichedelici”dei cultori del Taiji Quan, o dalle intonazioni di gola del canto gregoriano sotto le arcate e i pennacchi di basiliche liberamente istoriate di citazioni giottesche.

C’è un canone secondo il quale il monaco dev’essere pronto ad ascoltare e lento a parlare, poiché il silenzio (specie se claustrale) è per dirla con un intenditore come William Shakespeare, “il più perfetto araldo della gioia”. Nella pittura accurata, tecnicamente sapiente (vi si registra la felice frequentazione dello studio di Franco Venanti), Anna Maria Artegiani sdipana per episodi – in sé con felicità risolti – un racconto unitario di momenti altamente religiosi; un elogio della contemplazione. Quadri dunque nei quali più che il culto o i cerimoniali propri a ciascuna disciplina catartica, conta l’ascesi individuale, l’estasi, o il tripudio collettivo, come accade nella tavola dedicata alla Danza dei Dervisci, dove il patio della moschea sembra, sotto il colonnato di sostegno agli archi moreschi, vibrare per le incalzanti estenuanti rotazioni sull’asse del proprio corpo che i seguaci del poeta mistico Rumi, Sufi biancovestiti e dal copricapo troncoconico, compiono per raggiungere lo stadio della totale comunione con Dio, con l’Allah che il Corano invoca 2696 volte. Alcuni religiosi inginocchiati si concentrano prima di lanciarsi nel movimento che avvicina alla Verità (o che hanno appena finito di danzare). Flauto di canna e tamburello che accompagnano la danza sostano per un battito d’occhio, perché la danza, quando esplode, ha ritmi meccanici e suoni suoi propri, fatti soltanto del frusciare della gonna intorno all’asse del corpo come immateriato, estatico.

Non credo esistano, ripeto, molti esempi, nell’arte d’oggi, occidentale, di dipinti che si cibano di silenzio dipinto, dedicati ai misteriosi, iniziatici riti del Sufismo, che è il volto interiore dell’Islam. E completano l’ideale trilogia, ripeto, o trittico musulmano, altre tele – sempre stese rigorosamente a olio. Nella prima delle quali due Sufi, uno giovane e uno maturo e barbuto sostano in meditazione di fronte al Miharab, la nicchia sacra, dove viene custodito il Corano, tabernacolo sito in fondo alla moschea e orientato verso la Mecca. L’accuratezza del disegno e dell’impianto (impasto) cromatico, la ricchezza delle decorazioni geometriche o floreali (in moschea come in sinagoga si vietano le rappresentazioni umane), perfino le simulate cadute (o lacune) di colore negli affreschi, tutto ciò, nei dipinti di Anna Maria Artegiani, hanno un vago, squisito sapore di trompe-l’oeil, esaltato dall’esattezza delle trame dei tappeti di preghiera, effetto che si ripropone nel quadro in cui un Sufi è assorto nella lettura (da destra a sinistra) del testo sacro, come circonfuso in soffici cuscini, una lustra teiera a portata di mano, isolato dal mondo esterno da un variopinto, gonfio tendaggio. E pare che il silenzio stia come mormorando, forse suscitato in alto dalla danza rutilante del quadro nel quadro, segnale questo di colte lezioni visive e di citazioni.

La “quadreria” sacra di Anna Maria Artegiani si compone di altre trepide “stanze”, con rimandi al cattolicesimo più intimo e segreto, più lirico: il canto gregoriano, e, nel ventre arcuato, archetipico della basilica, il silenzio claustrale entro l’artificio dei pieni e dei vuoti nelle ogive degli archi e delle sinuosità delle colonne tortili o bilobate. Un mondo mistico – ma si intuisce operoso secondo la regola dell’umbro Benedetto – che l’artista offre al godimento degli occhi, della mente e dello spirito. Durante la “fuga” dei quadri – tutti intensamente presenti – emerge come una predilezione, forse inconsapevole, per lo status monacale ortodosso, per le preghiere assorte di fronte – ma anche dentro – le sacre immagini, dorate e come petrificate nell’immobilità bizantine, bidimensionali piane, “srotolate”. Con i suoi monaci in esicasmo, sorta di levitazione antigravitazionale, o in lettura davanti all’iconostàsi, muro colorito e statico che glorifica il divino mediante “strisce” di fotogrammi miniati, le sacre icone, la pittrice celebra l’esercizio quotidiano d’un’iconodulia avvolgente.

Il terzo tempo della pittura “teologica” o “teologale” o “teleologica” della giovane artista umbra, è il tuffo temporale e spaziale nella ieraticità delle filosofie – complesse e per certi versi non spiegabili – orientali, un universo di grandi religioni non monoteiste e ramificati sincretismi, che lei racconta con abilità tecnica, virtuosa, pari a coscienza culturale, affidando a un’esplorazione cromatica puntuale e a una ricostruzione puntigliosa dell’ambiente, i suoi messaggi pittorici e i suoi passaggi iniziatici. Altro capitolo che fa di questa mostra un piccolo-grande evento – non foss’altro per originalità di temi e bontà d’esecuzione – è la galleria dei ritratti, ideali o immaginari, dove si compendia la felicità della fede e l’abbandono nella contemplazione. E dove gli occhi (di donne, di religiosi, di mistici) hanno la fissità enigmatica e ultraterrena dei saggi e dei credenti, che navigano su mari di assoluta beatitudine. Occhi ora limpidi ora luminosi: ametista, malachite, zaffiro, ambra. Un catalogo di sguardi che ti scrutano con solennità e amore e nei quali ti specchi, salvo.

L’effetto principale di questa bella galleria di opere pittoriche è la conoscenza che produce, forte sul piano estetico o strettamente esegetico, dirompente su quello squisitamente etico. Perché se n’esce sapendo misteriosamente il valore salvifico dello spiritualismo nell’arte, e come – specie in questo secolo nuovo, malgrado gli eccessi – abbiano tanta sacrosanta ragione coloro che lottano contro il globalismo, l’omologazione, l’avvelenamento del povero pianeta chiamato terra, in cui le risorse non sono infinite e tutte rinnovabili e dove persistono mostruosità sociali: schiavitù, fame, epidemie, pestilenze, guerre, ingiustizie che urlano al cielo.

Così dalla pittura di Anna Maria Artegiani si esce come rigenerati e consci che la tolleranza (e il rispetto dell’altro) è un’arma che come ci hanno insegnato con parole e opere san Francesco d’Assisi e Aldo Capitini da Perugia, tramuta il dire “io” nel “tu”. Non più guerre di religione, ma ecumenismo inteso come totale abbraccio. Ricordando come mònito che non soltanto le religioni formali, istituzionali, ma i mistici e i missionari non fanatici, sono gli autentici costruttori di pace. Sulla contemplazione, laica, moderna, dipinta teofania credo abbia voluto dire questo (e altro si potrebbe aggiungere): tracciare un sentiero, disboscare pregiudizi e integralismi, indicare una direzione. Con i mezzi propri dell’arte. Ut pictura poesis.