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EUGENIO GIANNÌ
Volti e luoghi del sacro fra Oriente ed Occidente
L’Arte è l’insieme di un sistema di segni per mezzo del quale lo Spirito si pone alla luce.
E. Giannì
Vi sono modi diversi di porsi davanti al creato per accedere alla potenza dello Spirito: vi è quello degli artisti del primo Medioevo, che ritenevano opportuno ritirasi dalla “mondanità” e rifugiarsi nella contemplazione per meglio aderire alla forza illuminante dello Spirito; quello del periodo rinascimentale, che percepiva nell’uomo le stesse attitudini creative di Dio, e perciò la capacità di trasformare la realtà esterna come quella interna; quello del pensiero moderno, che vede nella natura espletarsi la potenza dell’Eterno ed in essa si identifica per uniformasi al senso di afflizione universale generato dalla caduta di Adamo. E’ il caso di Van Gogh, che del passare degli anni, del perire di un fiore o del taglio di un albero, accoglie il processo che conduce a una nuova dimensione, a una nuova vita. Ecco scrivere al fratello Theo, “la vita dell’amore di Cristo, che ci sprona, è la mestizia, di cui nessuno si rammarica, la mestizia divina” (Lettera 82 del 1876); oppure, “A me sembra che la natura mi abbia parlato, che mi abbia detto qualcosa che io ho trascritto stenograficamente. Nella mia stenografia possono esserci parole indecifrabili, ma è rimasto qualcosa di ciò che il bosco o la spiaggia o la figura mi hanno detto” (Lettera 228). Vi è poi quello del pensiero contemporaneo - che calca pienamente l’idea dei simbolisti – fondato sull’alto grado di decadenza raggiunto nella religione, nella morale e nella giustizia; e tutto per inseguire la finezza dei desideri, dei sentimenti, dei gusti, del lusso, dei divertimenti, a cui fanno da contraltare nevrosi, isterismo, ipnotismo, morfinomania, ciarlataneria scientifica e parascientifica. Ciò spiega il bisogno di nuove parole, nuovi linguaggi, nuovi rapporti che facciano da contrasto ad ogni senso di pudore e di decenza. Se nel caso di Van Gogh il modo di accedere allo Spirito è suggerito in forma “stenografica”, perché nulla delle impressioni offerte dalla natura possa essere perduto e nulla deve sfuggire della bellezza che finisce in un solo momento, nell’arte di Anna Maria Artegiani il tempo sembra essersi fermato: penetrare l’Assoluto, cogliere le sensazioni dinamiche dello Spirito, le sue trasmutazioni, richiede un lungo periodo di ascolto, di intercettazione, di identificazione, di messa in onda al fine di adattare le capacità di introiezione dell’uomo a quelle dello Spirito. La contemplazione ha la caratteristica, difatti, di una disposizione temporale davanti al soggetto divino perché l’essere interessato possa penetrare ed accogliere quanto di esso si offre alla vista della mente così come a quella del cuore. Contemplare l’opera di Artegiani implica, perciò, una identica disposizione di spirito e di tempo, di interesse e di conoscenza; richiede di spogliarsi delle proprie vesti e rivestirne altre, fare a meno del proprio bagaglio culturale ed avviarsi “nudi” nel corridoio poco spazioso che l’artista offre. Implica uscire dal “mondo”, dalla sua fisicità, dal suo sistema di valutare il tempo ed entrare in un’altra dimensione, che non vuol dire venire meno a se stesso ma, al contrario, rigenerarlo, riqualificarlo, comprenderne pienamente le funzioni e le ragioni della sua presenza. Significa, in altri termini, prendere coscienza del proprio IO, di quella parte spirituale che non vive di vita propria ma che dipende dall’Altro, da quella potenza che l’ha posto al mondo. E’ un modo per ricongiungersi al Bene universale, di tornare all’armonia e viverla interiormente come singolo individuo.
Ciò che della poetica di Artegiani affascina è la consapevolezza di cogliere all’interno di ogni uomo una diversa realtà, che supera la temporalità dell’esistente per immergersi in uno stato di beatitudine, di ascesi mistica. L’artista non abbandona mai la sua natura di donna “pensante”, nonostante le intemperie dell’attuale struttura sociale che impone quasi ad uscirne fuori. Artegiani non spezza il “filo” di congiunzione ma nello stesso tempo non permette che questo ottenebri la visione di una realtà superiore capace di colmare il divario o i bisogni dell’anima. La conoscenza delle tradizioni religiose, la sua piena adesione allo Spirito che unisce, che permette di realizzare la perfetta congiunzione e pacificazione degli uomini, indipendentemente dalla loro origine, trova realizzazione nell’identificazione che si ha nella contemplazione, nell’atto di “elevazione” degli spiriti. E’ nel congiungimento finale che si realizza la completa armonia, l’annullamento delle diversità e la fusione dell’anima nell’Essere Supremo. Merita rilevare che Artegiani non prende parte alla “separazione” nominale del Divino, non abbraccia una confessione a dispetto di un’altra, ma accoglie di queste la particella che unisce, quel piccolissimo frammento nel quale si identificano gli esseri “illuminati”. Il suo repertorio artistico è perciò una galleria di momenti estatici in cui è possibile percepire come in una sequenza filmica i diversi attimi che qualificano la vita delle persone ammantate dallo spirito della contemplazione; ecco, perciò, Staretz che legge di fronte all’iconostasi (1994), Esicasmo (1996) - monaco ortodosso in preghiera -, Sufi davanti al Mihrab (1998), Rabbino (2001), Monaci zen in meditazione (2000), Lo Yoga (1997), ecc. Tale galleria non si distingue semplicemente per la “uniformità” esistenziale della preghiera (si noti la medesima conformazione, il medesimo schema di raccoglimento) ma anche per l’ambiente. Aldilà di alcuni casi come Monaci zen in meditazione, Lo Yoga, ecc. che trova collocazione all’interno di un habitat di schietta semplicità o sul selciato del tempio, per il resto siamo posti di fronte a dei personaggi il cui luogo è caratterizzato da elementi similari, vale a dire da una iconografia tipica della loro appartenenza religiosa, sia l’interno di una chiesa ortodossa, sia quello di una chiesa cattolica o quello, piuttosto scarno, di uno studiolo ebraico. Artegiani non permette che si entri in collisione con gli elementi che precisano l’ambiente ma che ci si identifichi con lo spirito che muove alla contemplazione, al comune desiderio di elevazione. E’ questo l’aspetto fortemente tratteggiato, che assurge a messaggio universale, a luogo di incontro delle diversità. E’ l’esame attento, lo stato di raccoglimento interiore, che permette l’annullamento di ogni separazione. L’artista non si preoccupa di analizzare dal punto di vista teologico le caratteristiche peculiari delle maggiori religioni o tradizioni spirituali, siano occidentali o orientali, ma di trovare il punto di congiunzione, vale a dire il comune sentimento che si annida nella preghiera, nella bramosia di congiungersi con l’Assoluto. E’ questa la nota che domina l’intero processo visivo. L’artista lo delinea con varie sfaccettature, facendoci attraversare luoghi diversi ma uniformi, con dettagli distinti ma all’unisono, congiunti dalla potenza invisibile che aleggia nell’atmosfera dell’opera.
Ma vi è un altro dato che merita prendere in considerazione, è la galleria dei volti. Sono straordinari non soltanto per il risultato tecnico ma soprattutto per la forte penetrazione psicologica dei personaggi; una penetrazione offerta proprio dagli occhi, che sembrano attraversare l’osservatore, superarlo e sviscerarlo nell’anima. E ciò non solo nel caso della figura femminile (Sabbia del deserto II, 2004; Lo sguardo, 2004) ma anche di quella maschile (Il monaco, 2000; Sufi, 2006): in tutte è il particolare potere catartico ad accogliere l’attenzione del fruitore, a bloccarlo nella “contemplazione” dell’opera, a “cristallizzarlo come rapito nello spirito”. La figura femminile, se posta a confronto con il ritratto dell’artista, offre, dal punto di vista estetico, ancora qualcosa in più: gli occhi sono gli stessi dell’artista. Guardare l’opera è, perciò, come farsi penetrare dall’artista, dal suo spirito, essere scrutati come davanti a una persona che cerca di svelare i segreti e spingerci a liberarci di ogni peso terreno, di ogni affanno. E’ come se la stessa Artegiani assumesse varie sembianze per un linguaggio comune, capace di parlare a molti, seppure nella molteplicità delle culture (Sabbia del deserto, 1995; Atmosfere dell’Est, 1998; Saggezza del cuore, 1997).
Se consideriamo gli ultimi lavori, ci troviamo di fronte ad una serie di soggetti, in particolare dei ritratti, che si pongono a superamento formale di quelli precedenti. Pensiamo a Arabesco di sabbia, 2007, nel quale il soggetto invade solo una parte del piano spaziale lasciando l’altra come campo da invadere mentalmente e su cui proiettare la nostra visione interiore, oppure Sguardi e colori dall’India, 2002, Farfallina, 2007, ecc.: ciò che emerge è il senso di una pittura che nel coniugare tempo e spazio non predispone a pensare ad alcuna categoria tale da permettere di interpretare il costante divenire dei fenomeni. L’insistenza enfatica della “vitalità del silenzio”, che trova piena consonanza nella “vitalità dello spazio”, si scontra con i confini imposti proprio dal supporto. L’artista supera tale collisione grazie alla roteazione di linee che, intersecandosi, àncorano il primo piano con l’orizzonte: da qui la loro inscindibilità (Derviscio danzante, 2008). Dunque si intrecciano due principi spaziali che danno luogo a una zona d’interferenza delle forze gravitanti: il primo è relativo alla prospettiva centrale di tipo rinascimentale, con linee che confluiscono verso un punto dell’orizzonte; il secondo è rappresentato da un suggestivo canale spaziale che trascina lo sguardo dell’osservatore verso lo sfondo (Pittrice di icone, 2005). La prospettiva, infatti, se da una parte fissa in un unico insieme gli elementi posti in primo piano, dall’altro le proietta in profondità. La grazia protettiva del campo si allarga in modo di accogliere il colore come forza espressiva dei rapporti, siano questi costituiti da complementari (Luce del nord, 2003) o da relazioni armonici (Intuizione spirituale, 2002; Senza titolo (giovane donna bionda), 2006). Si deve a queste dipendenze l’alto grado espressivo del soggetto, ma anche il suo carattere simbolico. Altra considerazione che permette di cogliere il senso religioso e filosofico che si annida nell’opera di Artegiani riguarda il concetto di arte. Per l’artista l’arte non è solo il “tempio del silenzio”, laddove è possibile spogliarsi del proprio IO e farsi invadere dallo Spirito, il luogo della contemplazione, vale a dire della penetrazione estatica di Dio, dell’Essere Supremo, ma è anche il luogo del “sacro”. L’arte, infatti, è vista (in base al suo lessico) come un fatto “sacrale”; cioè è un’arte che tende verso l’infinito e che per tale predisposizione coniuga due diverse attività dell’uomo: è un’arte che si realizza grazie ad un’azione “tecnica” (interviene nella realtà trasformandola e piegandola al pensiero dell’artista), ma è anche una forma di “gioco”, di piacere interiore. Dunque, da un lato è un’azione che implica l’utilizzo dell’intelletto e del cuore, dall’altro richiede l’impegno delle mani, del fare fisico. L’incontro di queste due funzioni determina la meraviglia del “divertimento” e della creatività, che è incontro d’amore, frutto della sapienza che proviene dall’Alto. C’è nell’arte, perciò, una dimensione che riguarda sia la creatività che la felicità, la quale dimensione non esclude la fatica di scavare sino in fondo, di penetrare la barriera dell’assoluto, di andare oltre. Conoscendo l’arte è possibile penetrare all’interno della perfezione e decifrare i suoi segreti. E’ quanto registra l’artista quando pone la sua opera a oasi di contemplazione e di riflessione. Non solo, lasciando fuori della propria vita la convulsione del mondo, l’artista sembra far propria una visione doppia: quella dell’osservatore e quella del proprio IO. Il risultato è il rifugio nell’amore, quello del cuore. Da qui l’Arte come “centro” e manifestazione intima del bene. In questo “luogo d’incontro” si sedimenta il bisogno dell’altro, che è culmine della ricerca spirituale. E’ questo il vero senso di libertà. Si offre così il ritorno all’origine, che è un uscire dall’angusta fessura della propria esistenza per farsi invadere dalla luce fulgente del sole. Una luce che avvolge ed incute timore, tuttavia affascina e plasma, poiché permette di contemplare l’insieme degli “atomi” disseminati nello spazio.